Considerazioni

di  Mevio Sempronio

Quando iniziai a interessarmi di ermetismo e di scienze tradizionali, lessi molto, da testi dell’oriente a testi occidentali di scienze occulte e di magia, il tutto mescolato a concetti di scienza moderna e di avanguardia. Lessi di Alchimia senza capirci nulla, ma assaporando uno strano sapore di cose profonde e affascinanti.
Poi iniziai a frequentare un gruppo dove si studiava l’ermetismo, si leggeva Kremmerz, Gurdjieff, Castaneda, Evola, Steiner, Scaligero. Era stimolante discutere tra noi, confrontare i testi, le tecniche. Soprattutto ci si sentiva un gruppo, che aveva gli stessi gusti e si interrogava sulle stesse cose.
Si era convinti di crescere e in effetti qualcosa di stimolante cresceva dentro. Cercavamo di  individuare, tra i vari approcci al tema della Tradizione, quello che più poteva essere in sintonia con il nostro essere. Capivamo che si sarebbe dovuto lavorare su noi stessi: si esaminavano e si confrontavano diverse tecniche, si tentava qualche esperimento. Tutto era stimolante, affascinante, dilettantesco. Poi, dopo le riunioni del gruppo si tornava alla vita di tutti i giorni, aspettando con ansia di ritrovarsi.
Nel gruppo non ci si sentiva soli, c’erano altri a cui appoggiarsi e che, almeno apparentemente, ti comprendevano, e soprattutto c’era una guida, un maestro, che ti stimolava e indicava le soluzioni ai tuoi dubbi speculativi.
Poi, un giorno, quella guida mi disse che non dovevo considerare nessuno un maestro, e già questo mi sconvolse. Se non c’era un maestro, una guida, chi mi avrebbe indicato il percorso? Mi disse anche che il gruppo era pericoloso, perché avrebbe creato una forma di appoggio: io dovevo diventare libero e trovare il vero maestro che era dentro di me.
Mi chiese se ero disposto a intraprendere un vero percorso evolutivo, che andasse oltre le speculazioni culturali e filosofiche e mi consentisse veramente di trovare in me ciò che cercavo.
Disse che non avrei più frequentato quel gruppo, nel quale mi sentivo sicuro, guidato e coccolato, ma sarei stato ammesso in un’Accademia, dove si sarebbe iniziato a lavorare su se stessi, oltre che a dedicare una parte dei propri sforzi a persone inferme.
Non capivo bene la diversità. Ma il fratello più anziano, che mi aveva fin lì condotto, mi spiegò che era come se fino ad allora avessimo discusso di montagna, di scalate, di percorsi e sentieri, proiettando filmati e leggendo testimonianze di scalatori, ma ora ci saremmo allenati per andare in montagna. Quindi basta sogni sulle montagne, ma allenamento in palestra per temprare muscoli e corpo.
Fui quindi ammesso all’Accademia.
Dopo un primo breve periodo di curiosità ed entusiasmo subentrò un profondo senso di delusione.
Non più incontri stimolanti in cui si discuteva di tutto, ma un lavoro concentrato su qualche scritto, che a prima vista poteva anche sembrare banale, scarsi interventi di fratelli anziani; ognuno veniva semplicemente stimolato ad esporre le proprie considerazioni, senza alcun ulteriore commento da parte di chi pensavo guidasse il gruppo. Non conoscevo molti dei partecipanti che, finito l’incontro, se ne andavano a casa loro; non comprendevo come in tal modo si potesse formare la Catena di cui si parlava, e la Fratellanza tra i membri.
In me vi era l’esigenza di incontrarmi con gli altri, di confrontarmi con loro anche al di fuori delle riunioni stabilite, conoscerli meglio, anche perché durante le riunioni si notavano alcune profonde diversità tra i componenti e, a volte, si percepivano tensioni.
Sentivo il bisogno di non limitarmi a quello che ci era stato detto di studiare e di praticare, mi sembrava che avrei potuto fare di più. In breve, trovavo che l’altro gruppo fosse notevolmente più stimolante ed appagante, tale anche da non farmi sentire solo nel cammino; credevo importante la crescita in comunità. Qui ero solo, senza appoggi e senza guida. Non riuscivo a riconoscere più quello spirito di comunità e complicità che vivevo nell’altro gruppo.
Cominciavo a trovare monotono fare sempre le stesse cose, che mi pareva diventassero per me un’abitudine. Credevo di vivere un rallentamento nel mio percorso.
Inoltre, consideravo poca cosa quanto mi era stato dato da leggere e praticare; volevo avere di più, altre pratiche, altre tecniche. Non mi stava accadendo niente di straordinario, come invece mi ero aspettato ed immaginato.
Quando chiedevo qualcosa a chi ritenevo essere la mia guida mi veniva quasi sempre risposto: pensaci! E venivo di nuovo lasciato solo e nel silenzio.
Stavo veramente vivendo con difficoltà tale esperienza e mi decisi di chiedere un colloquio con il fratello più anziano, che mi aveva condotto fin lì.
Quella volta egli non si limitò a rispondermi: “ pensaci”,  ma mi disse più o meno questo: “Chiunque inizia questa strada cerca, in modo quasi inconscio, un maestro ed un gruppo a cui appoggiarsi. Cerca stimoli e confronti, vorrebbe sentirsi parte di un gruppo esclusivo che lo accoglie e in cui si riconosce, giunge anche a pensare che il percorso sarebbe migliore se fatto tutti insieme, magari in una forma comunitaria. Tutto questo è lecito pensarlo in una prima fase del percorso, ma poi bisogna sapere cosa si vuole e comprendere che, se si decide di passare da una forma di crescita culturale, lecita ma limitata a se stessa, a una vera e propria evoluzione personale, in cui si impari concretamente a sentire in sé le forze che si sviluppano e che preveda un lavoro profondo sul proprio essere e le proprie abitudini, bisogna entrare nel silenzio e in un lavoro solitario e di profonda introspezione, che può inizialmente sembrare noioso, perché ripetuto come una goccia che scava la roccia. In tale lavoro il gruppo fisico non c’è più, ma si deve raggiungere un livello di vibrazione, attraverso i riti, che consenta di riunirsi su un altro piano, non più amichevole e comunitario, ma di catena eggregorica.
Quella che tu consideri guida farà di tutto perché tu non possa appoggiarti a lui né a nessun altro del gruppo, ma invece cercherà in tutti i modi di stimolare e di far sviluppare il tuo Ermes, il tuo Maestro Interiore, l’unico a cui puoi affidarti. Inoltre, cercherà che non si crei un gruppo omologato e simile a una setta, ma tenterà di valorizzare le caratteristiche di ciascuno, di svilupparle e di equilibrarle, facendo così della diversità un valore. Ecco perché un’Accademia non può e non deve essere considerata una scuola in cui vi sia qualcuno che insegna.”
Mi fece leggere “Come si comunica la Forza” di Kremmerz e gli scritti di Hahaiah sul Silenzio.
Cominciavo a comprendere come fosse diverso il lavoro tra il gruppo propedeutico e questo, che nemmeno poteva chiamarsi gruppo, ma piuttosto Catena, operante ad un diverso livello. Come i Rosacroce, potevo sentirmi legato agli altri non fisicamente e comunitariamente, bensì su un piano sottile, in cui le singole caratteristiche si completavano.
Non si doveva più fare cultura, ma ricercare nel silenzio quella forza interna, quella luce interiore, che sola poteva guidarmi nel percorso evolutivo.
Capii che non aveva senso per il momento confrontare scritti, tecniche e pratiche, ma che scelto ciò che più era in sintonia con il mio essere, dovevo praticarlo con costanza e determinazione, fino a giungere a scavare la pietra con una goccia d’acqua.
Compresi il silenzio della mia guida e soprattutto il silenzio in me; prima di porre una domanda a qualcuno più anziano, cercavo con serenità e calma di trovarne la risposta nel mio profondo silenzio interiore in cui parlava la voce del Vero Maestro. Tutto ciò mi riusciva meglio quanto più procedevo ad osservare me stesso nella vita di tutti i giorni, le mie abitudini, i miei legami, le mie deviazioni. Capii finalmente che questo percorso non era uno studio come un altro, che si aggiungeva periodicamente alla mia vita profana, ma che tutto me stesso era in questo processo di evoluzione e la vita profana era un banco di prova continua.
Le riunioni periodiche del gruppo avevano solo lo scopo di sollecitare sempre di più tale osservazione di me stesso. Era importante e stimolante ascoltare gli altri, senza entrare in discussione,  per comprendere come uno stesso problema potesse essere visto in modi diversi e complementari.
Imparai con pazienza che se qualcosa o qualcuno nel gruppo mi dava fastidio, non dovevo far partire in automatico la critica o il giudizio, ma dovevo invece osservare, con distacco e scientificamente, perché quell’atteggiamento mi disturbava e cosa andava a smuovere in me. Le riunioni servivano a porre degli specchi davanti agli occhi di ciascuno, affinché attraverso gli altri ognuno di noi vedesse se stesso. Questo impediva di sentirci una setta, di appoggiarci agli altri o ad un maestro esteriore. Invece consentiva, lentamente ed inizialmente quasi senza accorgercene, di trovare in noi quella Luce ermetica di cui tanto si era teoricamente discusso ed in quella Luce il maestro, la Forza Terapeutica armonizzante e l’Ariel creatore.

 

Accademia Kremmerziana Patavina