Riflessioni sulla via del risveglio

Nel rumore del mattino, all’improvviso si fa strada un pensiero: davvero sono sveglio? Eppure, quando io attraverso i reami del sogno, li credo reali e non mi accorgo di stare sognando, né ricordo altra vita al di fuori di quella che vivo, né la mia casa, né la mia storia: la paura, la sete, la gioia, la passività nei confronti degli accadimenti, alla coscienza che sogna sembrano reali. E dimentico la storia del corpo che giace dormiente nel letto. Dimentico perfino che esista, vivendo la vita delle ombre. E qualunque astrusità o incongruenza io viva in un sogno, non me ne accorgo e la passo per vera, fino al mattino, quando la ragione si desta ed esclama: “che sogno astruso ho fatto stanotte!
E quella che chiamo vita?
Forme e consistenze che paiono reali svaniscono appena chiudo le palpebre, appena dal luogo in cui sono passo in un altro. Sensazioni un attimo prima infinitamente coinvolgenti, passano come nuvole nel cielo e stento perfino a ricordarle, pochi giorni più innanzi.
Ombre e miraggi.
Quando i saggi d’ogni tempo parlarono di un “unico istante”, di un “eterno presente”, di “Colui che sempre È”,  a che cosa essi alludevano?
Guarda che cosa è il tempo per noi, guarda che cosa è l’umana superbia: basta volare su un aereo per non vedere più le nostre forme e le nostre case, i grattacieli che si ergono minacciosi e ci paiono giganteschi. Viviamo ogni giorno dal punto di vista umano, e ci pare di chiederci, a volte: dove corre il Sole, sempre attorno all’orizzonte immobile?, perché tutto crediamo ruoti attorno a noi.
Ombre e miraggi.
Cercando la Via del risveglio, non avevo idea di cosa volessi, di cosa cercassi, né se ciò che credevo di volere esistesse: da che cosa ero spinta? Una sensazione impalpabile, invisibile, insiste e scalpita urlando: “Non è tutto qui: svegliati!”. Eppure le mie palpebre sono di piombo, e anche volendo non riesco ad alzare la cortina di nebbia che separa il mio sguardo dalla realtà.
Mi sono chiesta molte volte che cosa cercassi, e non per fede, ma per un’intima conoscenza ho trovato la risposta a questa domanda. Eppure, questa risposta non ha parole. Né voglio dargliele: sarebbe stupido spiegare a me stessa ciò che già so.
Per questa risposta cammino: so che c’è stato un tempo in cui i miei occhi hanno visto cose che non appartengono alla mia memoria. Vi sono momenti in cui, guardando un tramonto o una notte stellata, l’anima sente il muto linguaggio del Mondo, e avverte una nostalgia straziante nel non saper più comprenderlo. So chi sono e mi frustra la consapevolezza di non riuscire ad esserlo: perché, poi, non mi riesce? Perché ancora il ricordo è annebbiato, come quando, nella depressione, hai un vago ricordo di cosa voglia dire sorridere, ma non ricordi come si fa, né trovi la forza di astrarti dal pensiero del tuo dolore per conquistare il sorriso. So che vivo in un mondo di miraggi, eppure mi pare reale, e spesso credo – presa dal turbine – che sia l’unico mondo possibile, e dimentico le galassie infinite, dimentico ciò che i miei occhi non vedono: il Grande Burattinaio ha lanciato i dadi e stretto il giogo intorno al mio collo.
Ma nei rari momenti in cui un barlume di libertà ha sfiorato il mio animo; nei rari momenti in cui – per ora, solo nel silenzio e nella solitudine – sono stata me stessa, il velo di nebbia s’è scostato e ho potuto dire, senza superbia: “non c’è alcun dio… io sono!”. Ed io ero reale, non più un’ombra.
E la vita intorno lentamente cambia: essi camminano per la strada, intenti nei loro affari, trasportati dai loro pensieri, e l’unica cosa che mi trattiene dal giudicarli è sapere che si sono arresi fin da piccoli, e hanno accettato che la domanda più semplice che ciascun bambino si fa sia senza risposta: “chi sono io? Perché sono qui?”. Il primo giorno di scuola lo chiesi alla maestra, e la mia compagna di banco rispose, saccente: “ma come, non te l’ha detto tua mamma che ci ha fatti dio?”. E basta. Poi, crescendo, anche se non credi più in dio, la domanda l’hai già dimenticata: questo era il fine della favola.
Perché tutto lotta contro la coscienza che vuole svegliarsi? C’è un capitolo, nel Vangelo, intitolato “l’odio del mondo”, in cui Gesù dice: “Se voi foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo. Ma poiché voi non siete del mondo, ma del Padre, avrete la lotta.”. Non so se sia esattamente così, perché in fondo la lotta non viene dal mondo, ma da noi stessi, così come tutto il mondo è in noi.
Sì, ho detto che il mondo è in noi.
Nella cosmogonia egizia, non è mai detto che Atum creò. È detto che Atum proiettò se stesso: egli divenne Creatore e Creatura. Non voglio sembrare religiosa dicendo: “TU sei Atum: Atum vive in te.” Si dice continuamente che tutto è collegato e che in tutto scorre la stessa vita. Si dice continuamente che il Fuoco è ovunque. E quando sarai quel Fuoco, scorrerai in ogni cosa: che cosa, allora, rimarrà nascosto? Che cosa potrà dirsi estraneo a te? Eppure, mai come nel Cammino verso la Grande Comunione, sarai straniero al mondo. Camminerai come un viandante lacero, preso dalla fame, dalla solitudine, dal dolore della tua persona che muore, mentre la tua mente ancora non sa che tu non sei, non sei mai stato, quella persona: quella è un’ombra e uno spettro.
I tuoi più cari amici diventano stranieri, tua madre ti guarda col tormento negli occhi non riconoscendo più sua figlia: le ombre sempre piangono per colui che credono morto. Eppure non è dolore, e non devi farti coinvolgere da esso: è il possesso che l’ombra sente per un pezzo della sua vita che cambia forma. “Non ti curar di loro ma guarda e passa”: così Orfeo attraversò gli inferi senza voltarsi; così Rosenkreuz non poté tornare indietro lungo la via, contrastato da un forte vento.
Piangi, disperati, lacera le tue carni, se vuoi: avviati alla tomba e piangi pure te stesso, perché ti sentirai nulla e sarai solo come mai lo sei stato, come mai avresti voluto immaginare. In mezzo ai tuoi cari, in ciò che un tempo era letizia, un tunnel infinito separerà i vostri cuori e più la gioia del convivio ti coinvolgerà. L’entusiasmo e il desiderio svaniranno, e rimarranno soltanto oscurità, solitudine e sgomento. Ora visiti le profondità della terra, e la superficie ti è straniera.
Ma verrà il momento in cui ti accorgerai che non è la morte: è la vita!
Scoprirai nelle profondità degli inferi i tesori dimenticati, quando smetterai di pensare al vecchio te stesso: gli occhi si abitueranno alla nuova luce oscura e ne conoscerai le venature preziose. Troverai in te la luce e ti addentrerai nel nuovo mondo.
Quando potrai voltarti nuovamente, e l’oscurità si sarà fatta argentea, saranno passati mesi, forse anni: la tua vita sarà cambiata e chi ti amava ti avrà forse abbandonato, ma tu saprai (quasi sollevato dalla sua dipartita!) che, se ciò è accaduto, il suo amore era effimero ed egoista, e augurerai allo spettro ogni bene nel suo sogno. Altrimenti, rimarrai al suo fianco, ma vivendo di un’altra vita che lui mai capirà.
E tu?
All’uscita nella luce del giorno, che cosa farai tu? Risorto e purificato, forse te ne andrai volando verso nuove terre? No, non è tempo: non ancora. Avrai creduto di poter partire, per lasciare il mondo dell’ombra, ma non è tempo… Ingenuo e pazzo, hai ancora da fare! Ma ora, almeno, sai dove dirigere i tuoi passi: la luce palpita in te, e in comunione con la Legge, che diviene il tuo stesso Volere, costruirai e lascerai testimonianza e un erede. Solo dopo aver pagato il tuo tributo al mondo che ti ha ospitato, e del quale hai compreso il senso, potrai apprestarti al Grande Varco.
Ma questa, è un’altra storia…

Iehuiah


Accademia Kremmerziana Patavina