La luce eterna di Sansevero

Introduzione e breve commento alle lettere del principe Raimondo di Sangro sul Lume eterno

La storia del principe Raimondo di Sangro è indissolubilmente legata al mistero di come la tradizione iniziatica, dall’Egitto, giunse a Napoli in piazzetta Nilo, e di come essa sopravvisse nei secoli.
Incarnandosi nelle varie epoche in un connubio di dottrina e pratica attraverso le caste sacerdotali, i templi, i cenacoli esoterici e le tradizioni particolari, la Sapienza sempre si adattò ai tempi e ai luoghi per rendersi accessibile agli uomini che portino in sé il fuoco della ricerca senza fine. In ogni epoca e luogo la Tradizione, così intesa, si esprime e incide nella società. Così prese corpo nella scienza sacerdotale babilonese ed egizia, nel pensiero greco e latino, nella scuola pitagorica, nella Cavalleria tradizionale, nei cicli del Graal, nell’arte gotica, nelle opere dei Fedeli d’Amore, nei manifesti della Rosa+Croce e nei raggruppamenti esoterici, in una continua e, per certi versi, miracolosa resurrezione.
Per far comprendere perché definirei “miracolosa” questa rinascita, specialmente nei tempi più recenti, richiamerei alcune elementari nozioni storiche. A partire dalla pace di Westfalia, nella prima metà del 1600 e dalle cui trattative furono esclusi i rappresentanti del Papa, iniziò a farsi strada una nuova epoca per il pensiero umano, sempre più svincolata dai dogmi religiosi: ancora in germe nel 1600 e posta più che altro a livello idealistico, l’idea della tolleranza religiosa e della nascita del pensiero scientifico gettarono le basi per una libera ricerca dell’essere umano e per il riemergere delle antiche dottrine, fino ad allora velate dai simbolismi sempre più oscuri. La lotta che precedette e seguì la conquista della libertà religiosa dell’uomo in Europa fu terribile, specie se pensiamo a chi, per occuparsi della propria evoluzione e della trasmissione del sapere iniziatico, rischiava di essere torturato e bruciato vivo con l’accusa di stregoneria ed eresia. Ci stiamo ovviamente riferendo ai crimini dell’Inquisizione, che in realtà giunsero all’apice in questo periodo storico ma posero le loro fondamenta nel lontano 390 d.C., quando l’imperatore Teodosio si inginocchiò al cospetto del vescovo Ambrogio dando vita alla supremazia della Chiesa sul potere temporale, del cui braccio essa sempre si avvalse per far perseguire, torturare e uccidere coloro che reputava eretici. Questo continuo martirio dei ricercatori di verità sembrava senza speranza, almeno fino a quando, poco prima del 1600, un opuscolo di S. De Castellion (il de hoereticiis) fece notare che potere temporale e potere spirituale dovevano essere indipendenti, onde evitare la tirannia dell’Inquisizione.
Questo coraggioso opuscolo, sconosciuto oggi ai più, fece lungamente riflettere coloro che detenevano il potere temporale, e nel giro di pochi decenni, appunto con la pace di Westfalia, essi gettarono le basi per un’affrancazione del potere temporale da quello spirituale.
Così, lunghi secoli di oppressione non poterono far tacere la voce della Sophia Perennis: non appena il pericolo iniziò a sfumare e la separazione tra Stato e Chiesa iniziò a farsi strada, almeno in embrione, comparvero i Manifesti dei Rosacroce, presumibilmente redatti da J.V. Andreae e dal gruppo di studiosi del Cenacolo di Tubinga. In questi Manifesti, che diedero origine al mito della Fratellanza Occulta dei Rosacroce, la dottrina ermetica si innesta in una visione di una riforma globale della società cui, a suo modo, anche il principe di Sangro dedicò l’intera sua vita.
Nella metà del 1700, a Napoli, Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, nel suo palazzo contiguo a Piazzetta Nilo, raccolse quindi la Tradizione Ermetica Egizia, riportandola alla luce e sfidando, con l’aiuto del re Carlo III di Borbone, le persecuzioni della Chiesa e, in particolare, dei Gesuiti.
Va ricordato che a Napoli, proprio intorno a piazzetta Nilo, si era insediata nei primi secoli d.C. una colonia egizia alessandrina col suo tempio di Iside, e che sempre si mantenne viva a Napoli questa Tradizione, sebbene occultata.
La figura del principe Raimondo di Sangro nella trasmissione della Tradizione è fondamentale per lo sviluppo dell’ermetismo in Italia: fu dal nucleo ermetico egizio di Napoli che derivarono figure quali Domenico Bocchini, Giustiniano Lebano, Leone Caetani, Pasquale de Servis, fino a giungere a Ciro Formisano, più noto come Giuliano Kremmerz.
Sempre dalla cerchia ermetica, che fece capo al principe Raimondo di Sangro, proviene la quasi leggendaria figura del Conte di Cagliostro.
In questa introduzione, nella quale cercherò di dilungarmi lo stretto necessario per permettere al lettore di inquadrarne l’autore, indagheremo attorno al personaggio del principe di Sansevero, alle sue opere, alle sue invenzioni e alle leggende sulla sua vita e sulla sua morte.
Si narra che tra gli stretti vicoli dell’antica Napoli, “fiamme vaganti e luci infernali guizzavano dietro i finestroni, ed ora le fiamme erano colorate d’azzurro. Scomparivano poi le fiamme, si rifaceva il buio ed ecco, rumori sordi e prolungati risuonavano là dentro, e nel silenzio della notte s’udiva come il tintinnio di un’incudine, o si scoteva il selciato del vicoletto come al passaggio d’enormi carri invisibili” (Benedetto Croce, descrizione del laboratorio di Raimondo di Sangro).
Quel luogo, guardato ancora oggi con curiosità e timore dai passanti, ospitò la vita di un uomo dall’ingegno straordinario: discendente dalla stirpe carolingia e dalla casata dei duchi di Borgogna, figlio di Antonio di Sangro e Cecilia Gaetani d’Aragona, Raimondo di Sangro nacque a Torremaggiore, in provincia di Foggia, nel 1710. All’età di dieci anni i nonni paterni, alle cui cure era stato affidato, lo mandarono a studiare presso un collegio gesuitico, dove il principe poté crescere in cultura. Dopo la morte dei due fratelli e del padre egli ereditò, a soli 16 anni, il titolo di settimo principe di Sansevero e si trasferì a Napoli.
Il nonno, Paolo di Sangro, Grande di Spagna, riveste dunque un ruolo fondamentale nella formazione del giovane Raimondo, alimentandone l’amore per la ricerca: ciò è testimoniato, oltre che dalle sue opere, anche dalla sua biblioteca, che ospitava oltre 1500 volumi sulle materie più disparate e molte delle quale di carattere tecnico-scientifico.
Ebbene, parlando di quest’uomo è pressoché impossibile distinguere nettamente la storia dalla leggenda che lo attornia, ma qui parleremo di entrambe, per rendere giustizia a una personalità complessa che molto fece discutere di sé, sia al suo tempo che in seguito.
Dopo aver partecipato alla battaglia di Velletri con il grado di colonnello, di Sangro pubblicò diverse opere di carattere militare. In seguito inventò un nuovo tipo di archibugio, nonché un’arma dotata di un sistema che permetteva di sparare un colpo ogni quattro secondi; nel frattempo, si dedicava a esperimenti di chimica, alchimia, idraulica e meccanica.
Particolarmente utile si rivelò l’invenzione che recò in dono al re illuminato Carlo III di Borbone, grande amante della caccia: il principe gli fornì una tuta impermeabile, che sembra essere stata la prima della storia, e che incontrò i gusti e l’entusiasmo del re.
D’altra parte, Carlo III aveva già accolto Raimondo di Sangro tra i suoi fidi consiglieri fin da quando, all’età di circa sedici anni, aveva preso possesso del trono.
Il legame del principe con Carlo III di Borbone fu provvidenziale per salvargli la vita dalle persecuzioni della Chiesa: già quando egli diede alle stampe il libro “Il conte di Gabalis”, i Gesuiti gli mossero accuse di miscredenza; il che, parlandosi della prima metà del 1700, non possiamo certo considerarlo come un bonario richiamo.
Infatti, poco più in là nel tempo, i rapporti tra il principe e la Chiesa erano destinati e peggiorare: egli entrò in una Loggia massonica nel 1744, lo stesso anno in cui iniziò la costruzione della famosa cappella di Sansevero, cui dedicò la sua vita e il suo intero patrimonio familiare.
Nel giro di pochi anni scalò i gradi della Loggia, divenendo Gran Maestro di tutte le Logge napoletane e istituì un sistema detto “degli alti gradi”, ricavandosi un ristretto cenacolo di studiosi altolocati con i quali diede vita a una Loggia segreta, ricavata dall’anagramma del suo nome: si trattava della "Rosa d’ordine Magno", dalla quale prese vita il Rito Egizio Tradizionale.
Sono, questi, anche gli anni delle sue maggiori invenzioni, tra le quali si annoverano una carrozza marina in grado di superare in velocità qualunque nave conosciuta all’epoca; reagenti chimici che indurivano sostanze molli, tramite i quali si dice che fu in grado di solidificare il drappo che oggi copre la statua del Cristo velato, situata al centro della Cappella di Sansevero, tramutandolo in marmo; si dice che riuscisse a far diventare traslucido il marmo e a decorare le più dure pietre preziose, ma anche di crearne di nuove, a partire da una speciale materia, nota a lui solo. Sul ponte che collegava il suo palazzo alla cappella, andato distrutto verso la fine del 1800, collocò un orologio animato a forma di drago che indicava minuti, ore, giorni della settimana, mesi e fasi lunari; progettò inoltre una macchina tipografica per la stampa contemporanea a più colori e inventò dei fuochi d’artificio a più colori, tra cui il verde.
Frattanto, il re Carlo III di Borbone, da lui ispirato, dedicava buona parte delle sue forze alla ricerca archeologica, portando alla luce le dimenticate Pompei, Ercolano e Paestum.
Fu proprio in questo periodo che, per motivi oscuri, iniziarono le persecuzioni nei confronti del principe e delle sue Logge da parte della Chiesa e dei Gesuiti: si giunse perfino a voler istituire a Napoli un nuovo Tribunale del Sant’Uffizio, cosa che fu vietata per intervento diretto del re Carlo III.
Eppure, nel 1751, Papa Benedetto XIV scomunicò Raimondo di Sangro e tutti gli appartenenti alle Logge massoniche: a questo punto, al re Carlo III non rimase altro da fare che cancellare le Logge; convinse quindi il principe ad abiurare e a stilare una lista degli appartenenti a tali ordini, che tuttavia egli redarguì con un semplice richiamo; in effetti, con tale finta abiura, i massoni napoletani poterono continuare il loro operato evitando ulteriori persecuzioni.
Ma in breve tempo, Carlo III dovette far ritorno in Spagna, e il suo posto in Italia fu occupato dal religiosissimo figlio Ferdinando IV il quale, prestando ascolto al Ministro Bernardo Tanucci, si scagliò in più occasioni contro il principe, arrivando a farlo imprigionare a causa dell’affitto di certi locali, adibiti a bisca clandestina, cui il di Sangro era stato costretto per ripianare le sue finanze, prosciugate dalla costruzione della cappella di Sansevero. Tuttavia, l’intercessione di molti nobili, compagni del principe, indussero le autorità alla scarcerazione dopo pochi mesi.
Fu il figlio di Raimondo di Sangro, sposando una ricca nobildonna, ad aiutare il padre a portare a termine la sua opera.
Anche sulla morte del principe, avvenuta nel 1771, è presente un alone di leggenda: si dice infatti che egli, una volta defunto, avesse dato l’ordine a un servo di fare a pezzi il suo cadavere e di seppellirlo, con un potente incantesimo, in una bara dove sarebbe dovuto rimanere il tempo necessario per acquisire l’immortalità. Pare che di Sangro avesse predisposto accuratamente ogni cosa: la sua famiglia, in quel periodo, si trovava lontana da lui, e regolarmente venivano spedite delle lettere precedentemente predisposte. Insospettiti nel veder giungere lettere, contenenti risposte a domande che non avevano posto, essi si recarono a palazzo e, trovata la bara, l’aprirono: ma l’incantesimo non aveva avuto il tempo di funzionare e il principe si alzò dalla bara con un urlo terribile, stramazzando immediatamente al suolo.
Altre leggende vorrebbero che egli abbia ucciso sette cardinali, con il cui sangue e le cui ossa avrebbe fabbricato altrettante poltrone; oppure, che abbia avvelenato per anni due servi del suo palazzo, fino a metallizzarli: questi servi sarebbero le “macchine anatomiche” ancor oggi presenti nella cappella di Sansevero.
Mago, alchimista e ateo, il suo passaggio avrebbe causato il timore dei napoletani per tutta la sua vita, e anche oltre.
A prescindere dalle leggende, a volte anche più fantasiose di queste, sul suo conto, ciò che è certo è che, nelle lettere che pubblichiamo in questa edizione, e che sono fra le poche giunte fino ai nostri giorni, Raimondo di Sangro parla della sua più importante scoperta, nonché del suo più grande amore. Sto parlando delle lettere alchemiche sul Lume Eterno, unico scritto esoterico a oggi sopravvissuto e scritto dal principe di suo pugno.
Quale idea tramandavano e proteggevano, infatti, questi appartenenti a gruppi misteriosi che si riunivano sotto il segno del sole?
Nella prima pagina del libro, troviamo la figura di un “Lume eterno”, costruito con proporzioni e caratteri tali che non possiamo pensare si trattasse davvero di una scoperta scientifica: i simboli incisi su questo lume, cari alla tradizione ermetica ancora ai nostri giorni, parlano infatti di un complesso sistema di sublimazione atto a eternare il lume, facendo in modo che esso possa autoalimentare la sua propria luce senza consumare la materia; in alto, sulla fiamma, troviamo il simbolo del sole, con a fianco il termine “anima”.
La prima lettera inizia con l’enumerare alcune fasi dell’Opera, sotto il velo del simbolismo.
“Nel mese di luglio del passato anno essendomi applicato ad una operazione chimica col disegno di fare alcune fisiche esperienze, dopo essermi essa costata la fatica di ben quattro mesi circa di lavoro”.
Per coloro ai quali sono note le fasi dell’Opera è agevole intuire a quale fase di essa alluda il principe: in questo passo, egli narra di un’operazione chimica iniziata “quattro mesi prima di luglio”, ossia a marzo, che noi tradurremo come l’inizio della ruota zodiacale in Ariete e l’equinozio di primavera.
Dopo quattro mesi, egli sta ancora portando avanti questa prima operazione.
Finalmente, egli dice, “una sera degli ultimi giorni di novembre, nello sturare verso l’ora di notte quattro orinaletti di vetro da stillare, che io tenea innanzi a me su di un tavolo, appena la materia, in uno di essi contenuta, del peso d’una quarta parte d’oncia meno sette grani, fu da me accidentalmente approssimata ad un cerino, che tosto s’accese, e alzò una bella e viva fiamma, la quale inclinava al gialletto”.
Gli ultimi giorni di novembre richiamano, come conferma il seguito del paragrafo, la congiura che terminò con l’uccisione di Osiride da parte di Seth, che avvenne il 17 del mese di Athyr (ossia il giorno in cui il sole entra nel segno dello scorpione, dominio dell’oscurità). La fase di cui parla il principe, riferendosi alla fine di novembre, è con tutta evidenza l’uscita dalla prima Nigredo, coi quattro orinaletti, corrispondenti ai quattro vasi canopi, che già contengono la materia purificata del corpo “morto” di Osiride.
Passato, quindi, un considerevole lasso di tempo dall’inizio della prima Opera, questa materia suddivisa nei quattro orinaletti assume una speciale proprietà, per cui “s’accende”.
Tuttavia, la fiamma “gialletta” che scaturisce da questa materia ci indica che il lavoro svolto nell’uomo non è ancora maturo per eternare il Lume: infatti, in questa prima lettera, ci viene raccontato che tale fiamma si spegnerà per imperizia dell’operatore; è proprio in quel frangente che Raimondo di Sangro si rende conto di non aver spento una candela comune, ma un Lume, e tanto s’angustierà nei giorni successivi per riaccenderlo, senza successo, cercando in seguito di ricrearlo daccapo, calcolando l’esatta parte di materia combustibile da impiegare.
Questa seconda volta, dopo ripetuti esperimenti, di Sangro ci dice che la materia occorrente per far accendere la fiamma era mutata in “una quarta parte d’oncia meno 27 grani”.
Procede, dunque, fino al marzo successivo, nel tenere acceso ininterrottamente il secondo Lume.
Nelle lettere successive, egli descrive le proprietà di questo Lume, osservandone alcune in particolare attraverso una speciale scatola trasparente, predisposta in modo da poterlo osservare nei suoi movimenti e sulla quale, di volta in volta, ritaglia dei buchi in posizioni diverse, per arieggiare la fiamma: scopre così che non solo questo Lume soffre della mancanza d’aria, come ogni candela; ma che, in particolare, soffre e si agita anche quando l’aria penetra nella scatola da un buco posto più in basso rispetto a dove si trova la fiamma.
Scopriamo così che questa fiamma s’inclina, ricercando l’aria, in modo talmente violento che se il buco nella scatola muta di direzione essa rischia di estinguersi per non riaccendersi più. Ma quando nessun movimento e nessuna oscillazione turbano la combustione, il Lume assume proprietà sconosciute ed è in grado di continuare a illuminarsi senza consumare alcuna parte della speciale materia contenuta negli orinaletti, con cui è stato fatto.
Seguono alcune lettere in cui si distingue questo “vero Lume”, che produce “vero fuoco”, da altri lumi già conosciuti in passato, che tutt’al più sono in grado di produrre uno speciale fosforo, ossia un fuoco fatuo, ma mai un fuoco eterno.
Raimondo di Sangro comprende, così, che quella speciale materia da lui scoperta, e la cui proprietà rispetto a quelle che generano il fuoco fatuo di fosforo è quella di essere “maggiormente purificata”, ha in sé la proprietà di nutrirsi di particelle di fuoco elementare contenute nell’aria: in tal modo, esso non solo non può estinguersi ma, nella sua eterna combustione, non consuma nemmeno un grammo della materia di cui è composto.
Vediamo in che modo se lo spiega il principe: “esso, acceso che sia, riceve ad ogni istante tanto nuovo alimento dall’aria circostante, quant’è il detrimento che esso soffre; talché il compenso sia eguale sempre al danno […] è noto in fisica che tutta la nostra atmosfera è sparsa d’infinite piccolissime insensibili particelle ignee elementari: ora, io non trovo alcuna ripugnanza a immaginare che possa esistere una certa materia […] la quale, dopo che dall’azione di una materia vicina (il cerino, N.d.A.) che sia messa in velocissimo e agitatissimo moto, abbia la virtù d’attrarre a sé con una gagliarda energia le suddette particelle ignee”.
Non si tratterebbe, quindi, di una combustione, ma di una sorta di alimentazione del Lume.
E ancora: “Da quanto fin qui detto è chiaro che, dai primi momenti in poi dell’accendimento del suddetto mio lume, tutta la sua durata dipende da quel nuovo alimento, che si procaccia dalle particelle ignee, delle quali è pregna la nostra atmosfera”.
Le particelle ignee di cui parla di Sangro sono, oggi, ben conosciute dai ricercatori più preparati, e in fase di studio da parte della scienza moderna. Tuttavia, all’epoca in cui tali lettere hanno visto la luce, c’è da dire che l’esistenza delle particelle di spirito universale contenute nell’etere, dette anche monadi o, anticamente, atomi, non suonava affatto come qualcosa di strano: gli antichi sempre tramandarono l’esistenza di una materia eterica, invisibile agli occhi, all’interno della quale l’energia si trovava ad un grado d’intensità tale da dare a queste particelle una connotazione vicina alla materia “divina”, di cui l’uomo non poteva servirsi con strumentazioni meccaniche, non poteva vedere, ma ben poteva concepirla, filosofarne e iniziarsi ai suoi misteri.
In effetti, i primi studiosi di questa speciale materia furono sacerdoti e iniziati, della quale scoprirono alcune proprietà: tale fluido era infatti in grado di trasportare il pensiero, e in lui esisteva una “memoria matrice” in grado di riequilibrare fluidicamente i corpi. In esso erano anche contenute strane proprietà plastiche, in grado di far passare la materia da uno stato all’altro e di modificare gli effetti, conoscendone le cause.
Tale fu la materia di cui sempre si occupò la scienza dei Magi, e gli alchimisti non ebbero altro scopo che quello di “intrappolare lo spirito universale”, come evinciamo dalle continue immagini di pescatori dotati di reti finissime, che rinveniamo in molte litografie, una delle quali è anche presente nel Mutus Liber.
Elifas Levi chiamò questa materia “Grande Agente Magico”: grande, perché è presente ovunque nel micro e nel macrocosmo; agente, perché è in grado di produrre modificazioni sulla materia, anche inerte; magico, dal termine mag, radice di “magnetismo” oltre che di “magia”: tale termine è spiegato da Kremmerz come uno stato speciale di magnetismo radiante dell’essere umano il quale, per tramite dell’apparato psichico diretto dall’intelligenza, può entrare in contatto con la materia sottile, alla quale dirige gli impulsi della propria volontà e dalla quale riceve un equilibrio descritto dal di Sangro quando afferma che, nel bruciare, il Lume eterno, “acceso che sia, riceve ad ogni istante tanto nuovo alimento dall’aria circostante, quant’è il detrimento che esso soffre; talché il compenso sia eguale sempre al danno”.
Sicché la magia, in termini molto distanti dalla comune concezione fiabesca e sovrannaturale che si ha di essa, può tradursi come “scienza del mag”.
Ma per raggiungere un tale stato, è necessaria una preventiva purificazione dell’essere umano che, come insegnano gli antichi, deve morire a se stesso allo stesso modo in cui morì Osiride, allo stesso modo in cui Persefone e gli antichi dèi ed eroi discesero agli inferi e ne uscirono vivi.
Senza questa morte iniziatica, massimo grado di purificazione, sarebbe invano tentare di eternare il Lume perché, come insegna Raimondo di Sangro, non otterremmo altro che un fuoco fatuo di fosforo, giammai un vero fuoco. E la differenza tra l’uno e l’altro, come abbiamo visto, sta appunto nel grado di purificazione della materia contenuta nei vasi canopi, i nostri “quattro orinaletti”.
Riprendendo ciò che Giordano Bruno, nel suo "De umbris idearum", scrive sul punto, possiamo comprendere anche i tentativi del principe di rendere traslucido il marmo per accogliere la luce: conoscendo il suo cammino massonico, infatti, ben possiamo supporre che dietro il termine “marmo” non si nasconda altro che la “pietra”.
Giordano Bruno ritiene, quindi, che “l’anima ha una sostanza che si comporta verso gli intelletti superiori come il corpo diafano verso le luci, poiché, secondo la sua diafanezza e trasparenza, accoglie una certa luminosità come innata.
Questa è sempre in atto, quando è spogliata del corpo, come se abitasse la regione della luce.
Ma quando permane nel corpo, come un cristallo la cui diafanezza è limitata dall’opacità, ha visioni sensibili vaghe che si avvicinano e si allontanano attraverso una convergenza e divergenza secondo le differenze dei tempi e dei luoghi”.
Con ciò, dunque, si spiega la necessità di riportare l’uomo ad alcune speciali condizioni animiche, in grado di far da tramite tra il suo apparato fisico e psichico e le altre regioni sottili in cui egli dimora, benché non se ne avveda a causa del suo sistema cognitivo razionale che ha funzione di filtro alla percezione.
E, in effetti, impazziremmo se un mattino ci svegliassimo e fossimo in grado di percepire tutto ciò che ci circonda, senza filtrarlo: di qui la necessità di un lungo e titanico lavoro per fare della propria materia quella che è contenuta negli orinaletti del di Sangro.
Ma lungi dal trattarsi di un segreto meramente spirituale e astratto, si noti che il di Sangro parla esplicitamente di “un’operazione chimica col disegno di fare alcune fisiche esperienze”: esiste, quindi, un procedimento ben specifico che è stato tramandato per mondare la materia.
Sotto questa luce, ritengo, dovrebbero leggersi le lettere qui riedite dopo molti anni, ma anche gli altri scritti degli autori ermetici e degli alchimisti classici.
Non mi resta, a questo punto, che augurare al lettore una proficua ricerca.

Iehuiah