Quinta Lettera

Al fine di comprendere di cosa parla il principe Raimondo di Sangro si consiglia di leggere le precedenti lettere presenti in archivio.

I prudenti Filosofi sogliono d'ordinario contentarsi di ragionare solamente gli effetti delle cose naturali e d'astenersi poi d'investigarne le cagioni. Ecco ciò che loro suggerisce la sana critica sul fatto delle faccende fisiche. A dir vero, gli effetti, cadendoci sotto i sensi, non solo sono a portata delle nostre osservazioni, se non che ci danno eziandio tutta l'opportunità perché di essi ci assicuriamo a forza di replicate sperienze. Delle cagioni, per contrario, chi è che possa con alcuna sicurezza discorrere? Esse ci rimangono per lo più nascoste e si giacciono pertinacemente involte in una impenetrabile oscurità.
Con tutto ciò, comecché ciascuno studioso della Natura sia solito di far professione di sì prudente massima, pure appena v'ha poi chi, assicurato che siasi della costante riuscita d'alcun effetto, non si senta tosto mosso a forte curiosità di penetrare nel conoscimento di ciò che ne possa essere la cagione. Or poiché non v'ha alcun'altra porta la quale vaglia a prestarci l'adito onde pervenire a sì riposto nascondiglio se non le ipotesi, ecco perciò l'origine de' tanti e sì diversi sistemi per rispetto delle scoperte fisiche. Ciascuno si studia di formare il suo e ciascuno pretende, poi, che il suo sia da preferirsi a tutti gli altri; e, ciocché è più degno d'ammirazione, ciascuno trova degli ostinati e de' valenti sostenitori.
Io, secondo che nell'ultima delle mie quattro lettere a voi indirizzate vi significai, m'era proposto sì bene di fare anch'io la mia parte sul grande teatro fisico, ma di farla il più tardi che mi fosse possibile. Vedea bene che la stupenda scoperta da me fortunatamente fatta del mio lume, esigea senz'altro ch'io mi ci determinassi; ma volea con tutto ciò ascoltar prima gli altrui sentimenti. M'era preparato perciò d'esporre solamente al pubblico la fedele narrazione del maraviglioso fenomeno e di tutte quelle più solenni circostanze che l'accompagnavano. Intendo ora che le suddette mie quattro lettere, colle quali ho quest'uffizio compiuto, abbiano richiamato sulla mia scoperta l'attenzione de' più famosi Letterati della nostra Italia; e lo stesso effetto è ragionevolmente da pensarsi pure che sia per fare per rispetto de' forestieri la lunga lettera da me scritta sul proposito medesimo al Sig. Abate Nollet a Parigi. Ciascuno tenterà perciò di dir la sua; e mal si converrebbe senz'altro ch'io solo fra tutti mi tacessi, dopo che con io colui che do a tutti gli altri l'occasione di parlare. Lasciate, dunque, ch'io profferisca ciò che sento del mio lume e che v'annunzi, più presto di quel che v'avea promesso, quel particolar sistema che per rispetto di esso mi son formato. Chi sa? Forse altri, discorrendola com'io la discorro, potrebbe apporsi allo stesso mio sentire: ed io avrei allora tutta la ragione di dolermi della mia ritenutezza nel vedermi prevenuto da' pensamenti altrui intorno a una materia nella quale ho un legittimo diritto di prevenire ciascun altro.
Or quali saranno i lumi ch'io seguirò per istabilire con ragionevole fondamento la mia ipotesi? Non altri sicuramente se non quelli che mi verranno direttamente somministrati dalle lunghe e replicate osservazioni da me fatte su ciascuna particolare circostanza del maraviglioso fenomeno. Voi ben sapete che qualora si tratti di spiegare la cagione di qualunque siasi effetto naturale, quell'ipotesi è da preferirsi a tutte le altre i cui principi sono atti a render conto egualmente di ciascuna particolarità di quel tale effetto. Ecco, laddove io non travegga, il principal carattere della mia ipotesi. Degnatevi di grazia d'osservarlo.
Innanzi d'ogni altro io credo che non faccia uopo alcuna stentata dimostrazione per provare che'l mio lume sia un vero fuoco o, per dir meglio, una vera fiamma ignea, e non già un semplice fosforo. L'accendimento che gli si comunica da un'altra vera fiamma naturale e ch'esso poi dal canto suo ad altra materia comunica; lo scottamento che cagiona; il fumo che rende; il moto, il dibattimento, l'allungamento e ciascun altro accidente della sua fiamma lo danno incontrastabilmente a divider per tale; sempreché non voglian pure aversi dolcemente in conto di semplici fosfori tutte le altre candele del mondo. Ciò posto, la cosa che sopra tutte le altre è degna in esso di maggiore osservazione è la sua lunghissima durata senza né pure il picciolissimo scemamento d'un semplice atomo della dose della sua materia. Che è perciò mai quello che se ne dee giudiciosamente pensare? Non altro, per sicuro, se non che esso, acceso che sia, riceva ad ogni istante tanto nuovo alimento dall'aria circonvicina quant'è il detrimento che soffre; talché il compenso sia uguale sempre al danno. Ma com'è da intendersi che questo succeda? Ecco com'io lo concepisco.
È bastantemente in Fisica essere tutta la nostra atmosfera sparsa d'infinite picciolissime insensibili particelle ignee elementari: ora io non trovo alcuna ripugnanza ad immaginare che possa darsi una siffatta materia (qualunque sia la classe a cui voglia ridursi)  la quale, tosto che dall'azione d'alcuna vicina sia messa in velocissimo ed agitatissimo moto, abbia la virtù d'attrarre a sé con una gagliarda energia le suddette particelle ignee: ed ecco donde il debito compenso ritrae, ed ecco pure perché, chiusa che sia per ogni parte, tosto si estingue; e perché inoltre torce la sua fiamma verso quella parte del lanternone ove alcun'apertura sia fatta: essa corre allora a procacciarsi quell'alimento che le bisogna e che non può altronde venirle se non da quella parte solamente per la quale coll'aperta atmosfera comunica; ma com'avviene poi che estinta che una volta sia la suddetta materia non resti più atta a riaccendersi? Eccolo.
È manifesto che la riferita materia non contenga nella sua dose se non poche particole accensibili o che almeno ne contenga un numero molto più piccolo senza dubbio di quello che qualunque altra materia accensibile non ne contiene. Di fatto, qualunque altra materia atta ad accendersi, o che in pochissima quantità sia o in molta, è sempre ugualmente disposta e pronta ad accendersi tosto che alcuna fiamma le s'accosta; non così però la materia ond'il mio lume è prodotto: essa, laddove non giunga alla quantità d'una quarta parte d'oncia meno ventisette grani, è incapace di ricevere l'accendimento. E perché mai ciò? Perché essendo in essa più rare le particelle accensibili, che non in qualunque altra materia consimile, non sono queste atte ad accendersi se non quando la materia sia in tale quantità che n'arrivi a contenere tante quante bastino, poste in moto, a produrre unitamente quella fiammella che poi di fatto producono. Le sperienze da me fattene, e nelle mie quattro lettere a voi riferite, confermano esattamente, per quel che me ne pare, questa mia teoria. Ciò posto, è facile di conchiudere che laddove la suddetta fiammella, eccitata che sia, non avesse la virtù d'attrarre a sé successivamente ad ogni istante un nuovo alimento dalla circonvicina atmosfera la sua durata sarebbe brevissima e quasi momentanea: a dir vero, pochissimi istanti bastano senz'altro a consumare quel piccolo numero di particelle accensibili ond'essa è prodotta. Quinci avviene che estinta ch'è una volta, non resta più atta a riaccendersi: imperocché trovandosi in essa già consumate fin da' primi istanti del suo accendimento quelle tali poche parti accensibili che da principio contenea, si rimane poi inerte del tutto e senz'alcuna disposizione a nuovamente accendersi. Questo stesso, se mal non m'appongo, è una convincente prova della perpetuità del mio lume che ne possa in processo di tempo addivenire. Osservate, di grazia, s'io la pensi giusta.
Dal detto fin qui è chiaro che da' primi momenti in poi dell'accendimento del suddetto mio lume tutta la sua durata dipende da quel nuovo alimento, che si procaccia dalle parti ignee delle quali è pregna la nostra atmosfera; giacché tutto quello che nella propria sua materia si contiene d'accensibile rimane tosto consumato sul primo accendersi: dunque tutto il resto, che converte poi successivamente in fiamma, non esce più dalla sua propria sostanza, ma l'è estraneo, comecché le sia omogeneo. Or messo questo principio, che pare indubitabile, è forza di conchiudere che, finattantoché non succeda alcuno straordinario cambiamento nella suddetta atmosfera, debba la riferita fiamma durar sempre senza intermissione; conciossiaché niuna ragione appaia per cui debba credersi che sia essa per cessare d'ardere. Ed eccovi renduto conto a un medesimo tempo pure in una maniera più chiara e distinta del niuno scemamento nella quantità della sua dose, dopo il lunghissimo accendimento di tre mesi e giorni. Passiamo oltre. Una delle cose  che, fra le altre da me nelle mie lettere riferitevi, dee avervi mosso a gran maraviglia si è quella che, qualora in uno de' lati del lanternone del mio lume sia aperto alcun buco alquanto più inferiore alla base del suddetto lume, la sua fiamma, nel torcersi pel proprio naturale suo istinto verso quella parte, talmente si dibatte che, laddove non le sia immantinente rendita l'apertura superiore, s'estingue in breve istante; e tanto più tosto quanto il suddetto buco sia fatto più in basso. Che è perciò mai quello che se ne può pensare? Questa particolarità, a dir vero, è sorprendente; ad ogni modo ecco com'io l'intendo.
La fiammella di qualunque si voglia candela, essendo un fluido molto più leggiero e tenue dell'aria dalla quale per ogni parte è attorniata,  non ha di sua natura tanta forza che basti a resistere all'azione, o sia alla pressione, che per ogni verso le viene fatta dalla suddetta aria: quindi avviene ch'essa appaia per lo più di figura tonda; e se osserviamo che le resiste, e che dura ad ardere, è solo perché riunendo sempre più verso il centro per l'azione della medesima aria premente tutte le sue parti ed aguzzandosi verso la cima a guisa di cuneo, le riesce per questo modo di rompere e di superare la pressione di quelle parti superiori dell'aria verso le quali, per le note leggi fisiche, è spinta e sollevata dall'aria medesima a cagione della maggiore sua gravità specifica.
Ciò posto, è da credere senz'altro che laddove ogni altra candela avesse la natural virtù di torcere talvolta, siccome la mia, la sua fiammella verso uno de' suoi lati, essa verrebbe pure tra poco a spegnersi, imperocché quella tale colonna d'aria che le starebbe sopra premendola per traverso, vale a dire premendola per quella parte verso la quale essa per l'azione della sua punta non tendesse, la vincerebbe di molto e talmente la spingerebbe in giù che, dividendola e staccandola dal suo lucignolo, la costringerebbe finalmente a perire: non altramente avviene qualora si spegne un lume a forza di soffiarvi suso. Il soffio, e per dir meglio l'aria mossa dal soffio, urtando allora con violenza nella fiammella di tal lume la spinge oltre e l'allontana e stacca dal suo lucignolo e finalmente l'opprime. Questo raziocinio è molto naturale e diritto.
Or se questo accaderebbe alla fiammella di qualunque altra candela, tanto maggiormente dee accadere alla fiammella del mio lume la quale, non essendo altro, siccome vi spiegai, se non un aggregato delle semplicissime particelle ignee elementari sparse nella nostra atmosfera, è fuor d'ogni dubbio più leggiera, più tenue e più debole d'ogni altra fiamma. Vorrete dirmi, perché questo suo spegnimento tanto più tosto succeda quanto il buco sia fatto più in basso? Vi rispondo che esercitando allor l'aria superiore la sua pressione, o sia azione, sulla fiammella secondo quel medesimo verso pel quale le stesse particelle infiammate del lume col loro velocissimo ed agitatissimo moto l'esercitano, sono esse più facilmente dalla suddetta aria trasportate e allontanate dal loro lucignolo, come quelle che non solo non hanno allora alcuno sforzo per resisterle, se non che anzi si trovano disposte ed inclinate già verso quella parte dove l'azione dell'aria tende a trasportarle. Venghiamo finalmente alla più strepitosa e meno intelligibile particolarità del mio lume. Questa è fuor di ogni dubbio quel dibattimento che soffre e che tratto tratto si fa sempre maggiore a proporzione ch'esso (non già chiuso nel suo lanternone, ma posto all'aria aperta) sia di grado in grado inclinato verso l'orizzonte fino all'intero suo spegnimento, tosto che giunga ad allontanarsi dalla sua prima verticale situazione per un angolo di 45 gradi.
I più famosi valentuomini e più accreditati nelle materie fisiche liberamente qui tra noi protestano di trasecolare per rispetto di sì stupendo accidente del mio fenomeno: essi non san vedere alcuna precisa ragione per la quale debba ciò accadere nell'aria libera ed aperta. Lasciate non pertanto ch'io mi prenda la libertà di dirvene quel che ne sento. Immaginiamo dunque che'l suddetto mio lume sia nel suo sito verticale, è indubitata cosa che cominciando ad inclinarlo verso uno de' suoi lati il suo lucignolo, ch'è quanto dire la base della sua fiammella, viene a cambiar si sito; pel contrario tutto il resto della suddetta fiammella, sia per le note leggi dell'inerzia sia per la resistenza dell'aria ad essa immediatamente vicina, dee tender senz'altro in que' primi istanti a rimanersi nel primo sito.
Ciò posto, ecco che viene a trovarsi non più diritta, ma come in isbieco: in oltre la somma mobilità delle sue fluidissime particelle dee pur fare che a quel primo muoversi sieno esse in un certo modo sparpagliate per ogni verso: ecco il loro dibattimento. In questo stato d'aria superiore, alla cui pressione la riferita fiammella non per altro per l'innanzi resistea se non perché avea, siccome dissi, le sue parti tutte unite e la sua cima disposta a guisa d'un penetrante cuneo, cominciai a premerla per traverso; e tanto maggiormente fa sentire la sua azione quanto che trovandola disunita la trova conseguentemente pure più debole. Vi parrà forse che questo mio raziocinio debba valere soltanto per que' primi momenti che all'inclinazione del lume succedono, ma non già poi per lo più lungo tempo laddove sia esso lasciato nella sua inclinazione. Vi rispondo che la troppa disuguaglianza delle forze fa che la mentovata fiammella non possa mai più raddrizzarsi per ricuperare la sua prima direzione e la sua perduta tranquillità. Vedeste mai nella compagna piegarsi le spighe al soffio d'alcun vento? Esse non possono mai più rendersi in piede se prima non cessi di soffiare quel tale vento che le agita. Immaginatevi che lo stesso addivenga alla fiammella del mio lume. Essa si raddrizzerebbe tosto dalla sua inclinazione se l'azione dell'aria superiore cessasse per un sol momento di premerla: ma'l fatto è che la suddetta aria,, vinta che l'abbia una volta, dura tuttavia a premerla e ad agitarla nello stesso modo; né mai più le lascia spazio di riunire le sue parti e da ritentare il suo risorgimento. Ed è poi chiarissima cosa che la suddetta agitazione debba tratto tratto crescere sempre più, secondo che di grado in grado cresce pure l'inclinazione del lume: imperocché il nuovo turbamento, che ad ogni nuovo moto la sua fiammella riceve, è una giunta di agitazione che sopravviene alle sue parti già agitate dal moto antecedente.
Talché pervenendo poi, per così dire, la somma delle suddette agitazioni a un valore trascendente la forza, o sia la resistenza delle parti agitate ciocché all'inclinazione de' 45 gradi succede, cagiona finalmente l'intera loro oppressione, vale a dire lo spegnimento del lume. Io ho compiuta la mia parte, ch'era di comunicarvi il mio sistema; tocca ora a voi di compiere la vostra, ch'è di giudicarne secondo che più vi paia a proposito.
Moltissime altre cose v'avrei potuto aggiungere per modo di erudizione; ma per ora l'angustia del tempo non mi ha lasciato la piena libertà di farlo: forse appresso non trascurerò d'adempiere quest'altra parte. Frattanto portate in pace queste mie seccagini, onoratemi de' vostri stimatissimi oracoli e rimanetevi felicemente con Dio.