I “DIALOGHI ITALIANI”  DI GIORDANO BRUNO
Spunti di riflessione
       Giordano Bruno ha scritto molto, ma le sue opere sono di difficile approccio.
    Sono scritte o in latino o nella lingua italiana del sedicesimo secolo, con vocaboli e sintassi oggi di non facile comprensione.
    Per chi opera in ermetismo gli scritti di Giordano Bruno potrebbero invece offrire una quantità notevole di stimoli e di pratiche, riferibili alle varie fasi del percorso ermetico.
    In questo brano ci limitiamo a delineare il percorso indicato da Bruno nelle sue Opere Italiane, cercando di sollecitare alcuni spunti di riflessione, invogliando il lettore ad approfondire l’opera di questo grande filosofo ermetico.
    Le Opere Italiane, pubblicate dalla Casa Editrice UTET, presentano una interessante e notevole Introduzione di Nuccio Ordine, che abbiamo seguito per questo scritto.
    Alcuni brani di Giordano Bruno, di seguito riportati, sono stati resi, per quanto possibile, in un italiano moderno, al fine di poterne rendere agevole la comprensione.
    Le Opere Italiane sono costituite da una Commedia e sei Dialoghi. A differenza delle altre opere  più “tecniche” ed operative, scritte in latino, queste furono scritte in  volgare, con l’evidente intenzione di diffonderle non solo tra gli studiosi, ma  anche tra coloro che non conoscevano il latino.
    Ma,  nonostante questa apparente semplificazione, fin dall’inizio Bruno chiarisce  che in queste opere, anche se scritte in volgare e molte volte travestite di  “stracci”, dove anche il comico ha la sua parte, “non vi è parola oziosa,  perché in ogni parte bisogna mietere e dissotterrare cose di non mediocre  importanza, e forse proprio là dove meno appare.” 
    Tecnica  questa usata da molti ermetisti, e soprattutto da Giuliano Kremmerz.
    Si inizia dunque  con una commedia: “Il Candelaio”. 
    Come  appena detto, in questa commedia bisogna andare al di là dell’involucro, per  riuscire a percepire la vera realtà delle cose. 
  “Così dunque lasceremo la moltitudine ridere, scherzare, burlare e vagheggiarsi, rimanendo alla superficie, rappresentata dai mimici e dai comici, sotto la quale però sta ricoperto, nascosto e sicuro il tesoro della bontà e della verità; al contrario si trovano molti che, invece, sotto il severo ciglio, il volto sommesso, la  barba folta, la toga maestrale e grave, studiosamente nascondono, a danno universale, l’ignoranza vile e boriosa ed anche una non meno dannosa  ribalderia.”
    Nel “Candelaio”  Bruno mette in scena il ‘teatro del mondo’, uomini mossi da impulsi e da  desideri, che impediscono la percezione della verità e lo sviluppo di un  pensiero cosciente. 
    Vi sono  tre personaggi, l’”insipido amante”, il “sordido avaro” ed il “goffo pedante”,  che hanno un tratto comune: la non  conoscenza di sé. Viene rappresentata la differenza tra ciò che uno crede  di essere e ciò che realmente è: ciò che appare ci inganna. 
    In questa commedia si mostra allo spettatore come nella vita comune vi sia la preponderanza dell’apparire sull’essere: una falsa realtà, dove non conta “ciò che noi siamo e che facciamo veramente”, ma ciò che “gli altri stimano e pensano di noi”. 
    Ed in questo ‘teatro del mondo’ tutto si muta in continuità, tutto si trasforma. Ed appare un primo concetto da approfondire, ben esposto da Nuccio Ordine – Dialoghi  Italiani – Introduzione – Ed. UTET – p. 62: “Dinnanzi ai nostri occhi ciò che esiste sembra perdersi definitivamente, una volta per tutte. In effetti non è  così. Qua si annulla una forma, si dissolve uno specifico individuo. Ma nello stesso tempo là nasce un’altra forma, un nuovo essere si apre alla vita. Gli  aggregati si disgregano e gli elementi indistruttibili vagano da un composto  all’altro, senza fermarsi mai, senza conoscere l’immobilità e il riposo. Fluire delle forme, da una parte. Permanere dell’identità degli indivisibili,  dall’altra.”
    Bisogna cambiare dunque il punto di vista. Nel “Candelaio” Bruno ci invita a “vedere”. “Vedere” non semplicemente con gli occhi fisici, ma con la luce  dell’intelligenza. Solo con questa luce è possibile “vedere” la forma che si muta in continuazione e distinguerla da quella componente fissa che invece  non muta.
    Con il Primo Dialogo, “La Cena delle Ceneri”, Bruno amplia enormemente l’orizzonte entro il quale bisogna distruggere i falsi  principi, che impediscono il corretto “vedere” con la luce dell’intelligenza.
    E per far  questo prende spunto dalle allora recenti scoperte di Copernico e dalla  rivoluzione copernicana. Copernico aveva spazzato via le rigide calotte delle  sfere intorno alla terra ed “aperto” l’universo. Ma Bruno va ancora oltre. Supera una visione puramente matematica ed ancora meccanicista, basata sulla “ragione  calcolatoria.” Egli cerca di trasmettere l’idea di un universo infinito, senza alcun centro, senza alcun limite. Un universo che non può essere misurato, che non può avere una forma definita: è un arduo  salto che la mente e l’intelligenza umana devono fare. Concepire in sè l’idea dell’infinito, che non può quindi avere né misura, né limite, né centro. 
  Ma allora il centro, non potendo essere in un  punto definito, può essere dappertutto.
    L’esperienza  del centro può essere vissuta e percepita soltanto dal singolo individuo. E  “cose minime e sordide sono semi di cose grandi ed eccellenti.”
    Scrive  Nuccio Ordine – Dialoghi Italiani – Introduzione – Ed. UTET – p. 73,  riassumendo la tesi di Bruno: “Tutto ciò che esiste può essere centro non solo  per banali ragioni geometriche. Può essere centro soprattutto perché ogni  essere, visibile o invisibile, indipendentemente dalle sue dimensioni, è  animato dalla stessa forza vitale. […] Riconoscere in ogni singolo individuo la  medesima dignità significa porre la vita al centro dell’universo infinito.”
    Ma questa vita, questo principio vitale, come si esplica nella natura? Veniamo così al Dialogo successivo.
    Nel Secondo Dialogo, “De la causa, principio et uno”, Bruno affronta il concetto di forma e di materia.
    Egli cerca  di far comprendere al lettore il concetto di materia, materia unica, che  richiama in qualche modo la “prima materia” degli alchimisti.
  “Non è  dunque la materia in potenza di essere o in esplicazione di essere; perché  lei è sempre medesima ed immutabile, ed è quella per la quale e nella quale  avviene la mutazione, e non tanto quella che si muta. Quello che si altera,  aumenta, diminuisce, cambia di luogo, si corrompe sempre è il composto, mai la  materia.”
    Esiste  dunque un’unica materia, che compone tutto ciò che è “corporeo” ed  “incorporeo”.
  “Possiamo considerare come un essere la omniforme sostanza, che secondo innumerevoli circostanze ed individui, appare, mostrandosi in tanti e così diversi composti.”
    Ed ecco allora che vengono ad individuarsi le due componenti di tutto ciò che appare e vive.
  “Dopo aver più maturamente considerato, avendo riguardato più cose, troviamo che è necessario conoscere nella natura due generi di sostanza, l’uno che è forma e l’altro che è materia; perché è necessario che vi sia un atto sustanzialissimo, nel quale è la potenza  attiva di tutto; ed ancora una potenza ed un soggetto, nel quale vi sia una potenza passiva di tutto; in quello è potestà di fare, in questo è potestà di essere fatto.”
    La forma però non viene imposta dall’esterno, ma scaturisce dal seno stesso della  materia. Gli alchimisti parlerebbero dello Zolfo interno al Mercurio. Bisogna  riconoscere in se stessi questo “artefice interno”, questo “intelletto  universale”. 
    Ma questa  materia e questa forma, queste due componenti di tutto ciò che ha esistenza,  alla fine bisogna riconoscere che derivano dall’Uno e ad esso devono ricondursi.  Quindi la molteplicità si deve riunire nella unità:
  “Potete  quindi salire intuitivamente al concetto, non dico del sommo ed ottimo  principio, escluso dalla nostra considerazione, ma dell’anima del mondo, comprendendo  come essa sia atto di tutto e potenza di tutto, e  tutta in tutto: onde alla fine (dato che vi  sono innumerevoli individui) ogni cosa è uno; ed il conoscere questa unità è lo  scopo ed il termine di tutte le filosofie e contemplazioni naturali: lasciando  nei suoi termini la più alta contemplazione, che ascende sopra la natura, la  quale a chi non crede, è impossibile e nulla.”
    Non si  deve cercare “fuori dell’infinito mondo e delle infinite cose, ma dentro a  questo ed in quelle.”
    Va quindi colto l’invisibile nel visibile e l’unità nel molteplice.
    Un ulteriore approfondimento di questo tema si ha nel successivo Terzo Dialogo “De l’infinito, universo e  mondi”.
    In esso si approfondisce ed amplia il concetto di infinito.
  “Così si magnifica l’eccellenza di Dio, si manifesta la grandezza del suo impero: si  glorifica non in uno, ma in innumerevoli soli; non in una terra, in un mondo,  ma in migliaia, in infiniti. Cerchiamo di cogliere questa potenza di  intelletto, che sempre vuole e può aggiungere spazio a spazio, mole a mole,  unità ad unità, numero a numero: ecco che ci si scioglie dalle catene di un  angustissimo impero e viene promossa la libertà in un augustissimo impero.”
    La natura  viene ad essere un “infinito simulacro”, in cui si esplica la “eccellenza  divina incorporea per modo corporeo”. L’universo infinito diventa immagine  aperta della divina unità.
    Ciò  richiama l’Egitto, immagine del cielo; Egitto a cui Giordano Bruno ci rimanda  in molte sue Opere.
    Bruno vuol  far ritornare queste antiche verità, per secoli rimaste occulte, ma che adesso  il sole della sua “nuova filosofia” può di nuovo illuminare, rendendole  attuali.
  “Sono cose  antiche che rinvengono, sono verità occulte che si scoprono: è un nuovo lume  che dopo lunga notte spunta all’orizzonte ed emisfero della nostra cognizione,  e a poco a poco si avvicina al meridiano della nostra intelligenza.” 
    Dopo questa visione dell’universo e la consapevolezza che è all’interno della natura, in quanto immagine dell’infinito, che si possono individuare le leggi creative, Bruno inizia a delineare la modalità con cui si possa “liberare dai sensi” il pensiero dell’uomo: come eliminare da esso le immagini cristallizzate e deviate, che lo allontanano dalle pure intuizioni e successivamente porre in esso le immagini, simulacri delle Idee universali, che si esplicano nella natura.
    Questo lo esprime nel Quarto Dialogo: “Spaccio  della Bestia Trionfante”.
    Giove – l’Intelligenza  umana – convoca un’assemblea per purificare i “Cieli” dai vizi che imperversano  e per ristabilire le virtù. Non è un programma semplicemente morale, ma un  lavoro operativo sulla purificazione del  pensiero. “Spacciare” la “bestia trionfante”, eliminare pensieri ed  emozioni che derivano inconsciamente dal nostro Saturno e dal nostro Lunare più  denso, richiede uno sforzo enorme; è quel “lavoro su di sé” richiesto nel  percorso di purificazione ermetico. Bisogna uscire dal Caos dei vani pensieri, descritto  nel “Candelaio”, ristabilire l’ordine e liberare il pensiero dalle catene,  permettendogli di accedere a quell’intelligenza ermetica, che consente di  intuire le leggi della natura.
    In questo Lavoro, in questo “spacciare la bestia trionfante”, la Fatica gioca un ruolo essenziale.
    Giove lascia libera la Fatica di raggiungere ogni luogo, perché senza di lei sarebbe difficilissimo raggiungere “il polo sublime della Verità”.
  È con Fatica che si riesce a tenere unito il lavoro del corpo con il lavoro della mente.
  “Non voglio che tu possa dividerti: perché se ti smembrerai, parte occupandoti delle  opere della mente e parte delle opere del corpo, verrai ad essere difettoso  nell’una e nell’altra parte; […] se tutto inclinerai a cose materiali, nulla  otterrai nelle cose intellettuali, e viceversa.”
    Ecco l’equilibrio ermetico.
    Lavorando su di sé, “spacciando” le immagini dell’”animalità” e sostituendo nel proprio Cielo interiore le immagini degli archetipi creativi, si riesce, con la Fatica e l’equilibrio, a percepire, grazie alla propria intelligenza ermetica risvegliata, le Idee Vive della natura, esplicazioni di quell’Uno infinito, che si manifesta nell’atto creativo.
    Molte di questi temi vengono ripresi nel Quinto Dialogo  “Cabala del cavallo pegaseo”.
    Qui si continua e si compie quella riforma del nostro “Cielo Mentale”, iniziata nello “Spaccio”. 
    In questo  Dialogo Giordano Bruno rivolge una severa critica all’asinità negativa,  rappresentata dai falsi filosofi che credono di sapere tutto e dagli scettici che  credono che nulla si possa sapere.
    E loda invece l’asinità positiva: la fatica da una parte e “sapere di non sapere”  dall’altra, la predisposizione ad un  durissimo lavoro su di sé e la consapevolezza  della propria ignoranza. Senza “sudore”, senza la coscienza che i processi di conoscenza non approderanno mai ad un punto di arrivo finale, non sarà possibile riscattare l’uomo dalla sua condizione ferina.”
    Inoltre, in questo Dialogo, con l’elogio delle mani, “organo degli organi”, Bruno fa anche comprendere come l’intelligenza, per esplicarsi, necessiti di una forma a lei adatta. Quanto più l’intelligenza evolve, tanto più essa necessita di una forma che le permetta di esplicare il suo nuovo stato di coscienza.
    Con il Sesto Dialogo, “De gli eroici furori”,  Bruno va ancora oltre nel percorso ermetico. 
  È l’ultimo  dei Dialoghi in italiano. 
    Giordano  Bruno ci spiega in cosa consistano questi Furori.
  “Tansillo: Vi sono più specie di furori, i quali possono comunque ridursi a due generi: il primo genere è rappresentato da cecità, stupidità ed impeto irrazionale, che tende all’insensata animalità, il secondo genere invece è rappresentato da una divina astrazione, grazie alla quale alcuni individui diventano migliori degli uomini ordinari. Ed anche questi individui, che si migliorano, possono dividersi in due categorie: alla prima categoria appartengono coloro che,  per essere fatti recipienti degli dei o spiriti divini, dicono ed operano cose mirabili di cui né loro né altri ne intendono la ragione ed essi acquisiscono questo stato dopo essere stati prima magari indisciplinati ed ignoranti; in essi, come vuoti di proprio spirito e senso, come in una stanza vuota e ripulita, si introduce lo spirito divino, il quale ha  più difficoltà ad entrare e mostrarsi in coloro che sono saturi della propria razionalità. Il mondo allora comprende che essi non parlano per proprio studio ed esperienza, ma grazie ad un’intelligenza superiore. […]
    Gli altri, per aver acquisito capacità di contemplazione e per avere in essi attivo uno spirito lucido ed intellettuale, grazie ad uno stimolo interno e ad un fervore naturale, suscitato dall’amore per la divinità, per la giustizia, per la verità, per la  gloria, e suscitato anche dal fuoco del desiderio e dal soffio dell’intenzione volitiva, acuiscono i sensi, e nello zolfo della facoltà cogitativa accendono il lume razionale, con cui vedono più dell’ordinario: e questi non vengono alla fine a parlare ed operare come vasi e strumenti, ma come principali artefici ed efficienti.
    Cicada: Di questi due generi quale stimi migliore?
    Tansillo: I primi hanno in loro dignità, potestà ed efficacia, perché in essi è presente la divinità. I secondi sono però  più degni, più potenti ed efficaci, e sono divini. I primi sono degni come l’asino che porta i sacramenti; i secondi  come una cosa sacra in se stessa. Nei primi si considera e si vede in effetto  la divinità e quella s’ammira, adora ed obbedisce. Nei secondi si considera e si  vede l’umanità portata alla sua eccellenza. 
    […] Questi furori, dei quali stiamo ragionando, non sono oblio o stati di non coscienza, ma amore e brama del bello e del buono, con cui si cerca di essere perfetto, trasformandosi per diventare simile a quello. Non sono stati di rapimento sotto l’azione di una necessità non degna, legata ad affetti animali, ma consistono invece in un impeto razionale, che segue la tensione intellettuale verso il buono ed il bello che si viene via via a conoscere ed al quale ci si vuole conformare, accendendo in sè la nobiltà e la luce di quello. […]
    Il “Furioso” acquisisce allora uno stato simile ad un nume e non ha altro pensiero che per  le cose divine, mostrandosi insensibile ed impassibile verso quelle cose che di  solito la maggior parte degli individui sente  e dalle quali è tormentata; egli niente teme,  e, per amore della divinità, disprezza gli altri piaceri, e non si fa alcun  pensiero della vita. Non è un furore che, al di fuori di consiglio, ragione ed  atti di prudenza, lo fa vagare guidato dal caso e rapito da una disordinata  tempesta, venendo mosso da una disarmonia tra corpo, emozione e potere  cognitivo. È invece un calore acceso dal  sole dell’intelligenza nell’anima e l’impeto divino gli predispone le ali: onde quanto più e più si avvicina al sole dell’intelligenza, rigettando la  ruggine delle cure umane, diviene un oro  provato e puro, ha lo strumento della divina ed interna armonia, concorda i  suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte le cose.”
    Con il Furore l’uomo può giungere a trasformarsi nell’oggetto del suo desiderio, e se per lui questo è la divinità, egli può trasformarsi in essa. Qui si tratta di quella “divinità” che è nella natura, quella forza vitale che anima dall’interno l’universo infinito. Quindi il Furore può consentire all’uomo di unirsi alle Idee e Forze viventi e creative della natura, che sono presenti in lui stesso  e nella natura tutta.
    Si invita a tal proposto a leggere - e rileggere - “Gli Amanti”, di Giuliano Kremmerz,  pubblicato ne “La Scienza dei Magi” – II Vol. – p. 320 – Ed. Mediterranee.
    L’uomo  furioso è un cacciatore della “divina sapienza”, operazione di caccia, che si  compie con gli strumenti dell’”intelletto umano” e con la “volontà”.
    Possono  quindi definirsi “eroi”, coloro che compiono questo percorso solitario,  difficilissimo, “spinoso”, “incolto”, “deserto”.
    Con  un’immagine mitologica, il cacciatore è rappresentato da Atteone, che  cacciando, nel momento in cui incontra Diana riflessa nelle acque capisce che  ciò che stava cercando è dentro di sè, che la “divinità” tanto bramata con  furore non è al di fuori di chi cerca. Diana rappresenta “l’ordine di seconde  intelligenze, che riportano lo splendore ricevuto dalla prima”, quindi la  natura infinita, attraverso cui si manifesta la “divinità” assoluta, incarnata  nella luce di Apollo.
  “Il gran cacciatore […] andava per predare e rimase preda per l’operazione  ell’intelletto, con cui converte le cose apprese in sé.”
    Comprendere significa trasformarsi nell’oggetto.
    Ed allora il cacciatore da “uomo volgare e comune, diviene raro ed eroico”. Nella perdita della vita si configura la nascita ad una nuova vita: “qua finisce la sua vita secondo il mondo pazzo, sensuale, cieco e fantastico” e “ comincia a vivere intellettualmente”. 
  Il filosofo, l’ermetista, dilata il suo essere finito nello splendore dell’infinito.
    Quanto siamo lontani, e quanta strada è stata percorsa, dal “Candelaio”.
FDA